DALLA PREFAZIONE DI FABIO CANESSA
Autobiografia spietata di una vita difficile, quello di Lucian
Tarara è il racconto di un'esistenza sbagliata, aperto
da un incipit in cui l'autore si presenta come un essere strisciante
che non è mai riuscito ad alzarsi in piedi, quasi discendesse
non da Adamo ma dal serpente tentatore simbolo del male, e chiuso
da una lapide tombale di devastante amarezza. E si scusa con
i lettori, dichiarando quanto gli sarebbe piaciuto scrivere «una
storia piacevole d'una vita regolare», ma si appella alla
«verità» dei fatti, così importante
proprio quando, come nel suo caso, fa male.
Perché le lacrime, scrive Tarara, hanno radici molto più
profonde di un sorriso e non è vero che il tempo cancella
tutto, là da qualche parte ben nascosto il ricordo
rimane ben radicato nella mente. Soprattutto nella sua.
Lo dimostra la precisione analitica dei dati che la scrittura
registra implacabile, con un'esattezza sorprendente, a distanza
di tanti anni, a proposito di giorni, ore, minuti, gesti, fissati
indelebilmente nella memoria, come sale che brucia le innumerevoli
ferite di una via crucis senza fine.
Il Lucian di oggi racconta quello di ieri, senza volersi troppo
bene né facendosi sconti, anzi. E anche se il primo sembra
ormai molto diverso dal secondo, questo non basta certo a rimarginare
le cicatrici inferte agli altri e a se stesso, piuttosto pare
invece renderle immedicabili.
«Come sii fa a cambiare? Io non ho la più pallida
idea», confessa in una delle rare aperture introspettive.
Perché la scrittura di Tarara si limita a raccontare i
nudi fatti, a ciglio asciutto, esente dal vittimismo e dalla
ricerca di una facile compassione. Perfino il perdono gli sembra
impossibile, forse addirittura immeritato o comunque assai improbabile.
Si avverte solo qua e là lo sforzo di immaginare come
sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate diversamente,
insieme all'augurio che sia andata meglio a tanti compagni e
compagne di strada da cui le vie del mondo lo hanno separato.
Ma il passato non si può modificare e soltanto la letteratura
può richiamarlo indietro per ripercorrerne tutti gli errori
e i dolori, in nome della verità. Inutile credere che
il nonno abbia perso un occhio lottando contro un branco di lupi:
la realtà è che se lo era portato via con un filo
di ferro.
La verità è sempre più misera della trasfigurazione
eroica con cui vorremmo consolarci e la scrittura di Tarara non
è certo consolatoria («non ho più voglia
di raccontare quello che gli altri vogliono sentire»),
piuttosto è un bisturi che incide i bubboni di una realtà
violenta, come il coltello dei familiari sbudella il maiale in
quella che i lettori giudicheranno una festa barbarica,
ma che è soltanto la tradizione del popolo romeno. Pertanto
ingiudicabile, esattamente quanto la festa barbarica della vita
che ci viene raccontata. «La vita è questa e dobbiamo
penderla così come è».
La potente narrazione di un'infanzia devastata da un padre manesco
e ubriacone potrebbe fornirci, se non una giustificazione, almeno
una spiegazione di quella «capacità di ferire le
persone che non mi ha abbandonato durante la mia vita».
Ma è un nesso che facciamo noi, non è certo Tarara
a suggerirlo, tutt'altro: egli casomai cerca di comprendere perfino
lo sciagurato genitore («alla fine era mio padre, persona
grazie alla quale sono venuto al mondo») ed è pronto
a concedergli quel perdono che sente invece negato a se stesso.
Se nella prima parte la storia del protagonista, pur infelicissima,
segue un percorso originale che potrebbe potenzialmente svilupparsi
in senso positivo e sciogliere i nodi dolorosi di un'adolescenza
traumatica, per cui è più facile identificarsi
con quel bambino e palpitare per lui, il seguito è un
eterno ritorno di vicende sempre uguali (mutano solo luoghi e
nomi) indirizzate non verso una catarsi o un riscatto, ma in
un gorgo sempre più nero e senza via d'uscita. Per cui
ne viene fuori un romanzo di formazione mancata («io penso
di non essere maturato nemmeno adesso») con un protagonista
che si ostina ad andare «sempre di corsa» contro
se stesso. È sbagliato lui, visto che confessa «come
durante la mia vita non abbia mai sentito la mancanza di qualcuno»?
O è sbagliata la vita in sé? «Tutti sognano
molto più in alto anche se la vita è al di là
del sogno». Non sarà la vita a essere alla rovescia,
come la città di Caracal, dove «il cimitero era
sulla Strada della Resurrezione, il forno sulla Strada della
Fame ed il carcere sulla Strada della Libertà»?
In questo mondo al contrario pochi sono gli spiragli di tregua
e serenità: le rive dell'amato Danubio, l'amore («un'opera
d'arte, una cosa sacra,
un momento magico nel quale si può
concepire una nuova vita»), la bellezza che però
risulta «spaventosa», le relazioni umane (che possono
essere sincere e affettuose anche in carcere) e la libertà,
un bene che nessuna dittatura può cancellare del tutto
(«siamo liberi di pensare, di sperare, e neanche il più
duro dei regimi può impedirti di farlo»).
Succede anche in galera: «nei primi giorni di privazione
della libertà l'appetito sparisce e tiri avanti a forza
di ricordi». Vale ancora di più per la letteratura:
la libertà di scrivere, tirando avanti a forza di ricordi,
innerva ogni pagina di questo libro. E non aspettatevi una scrittura
caotica e febbrile come le vicende che racconta; al contrario,
l'asciuttezza e la lucidità con cui la narrazione procede,
archiviando in tono puntuale e quasi impassibile questa progressiva
discesa agli inferi rendono la lettura ancora più cruda
e allucinante. Perché è vero che «la vita
non è quella cosa facile che ci insegnano a scuola»,
ma la scuola ha insegnato a Tarara a scoprire «il dono
della scrittura». Aveva ragione la sua professoressa di
letteratura a riconoscergli questo talento e a farlo scrivere
«sempre di più». Se è servito a riversare
in questo romanzo fluviale, che scorre come il suo Danubio, il
groviglio di un'esistenza durissima, a esprimerlo con necessaria
urgenza e a condividerlo con i lettori. Anche se non si è
sciolto, è già liberatorio averlo trasferito in
parole e avercene fatto sentire il peso.
Fabio Canessa.
|