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GLI ANTICHI MESTIERI (Quadretti di vita di un mondo ormai passato)
Il falegname e il maniscalco.
Luomo da che mondo è mondo, ha sempre dovuto lavorare
per guadagnarsi di che vivere. E il doversi procurare cibo e doverlo
conservare ha dato luogo allo sviluppo dei vari mestieri.
Quelli antichi erano senza dubbio molto più faticosi della
più parte di quelli moderni, sorretti come sono questultimi
dal conforto della tecnologia; ma i primi erano anche più
caratteristici, oppure oggi ci appaiono permeati da quel velo
di magia che è tipico delle cose passate. Essi sono il
simbolo di un mondo povero, ma sereno e geniale.
Noi abbiamo riscoperto molti di questi antichi mestieri, ancora
presenti nei paesi fino agli anni 60, attraverso lopera
I meschieri duna vorta di Francesco Prunai
che, in dialetto ciolo, ( cioè tipico di Casteldelpiano,
sullAmiata ), ci ha raccontato, attraverso il dialogo, le
sofferenze e le miserie della povera gente che si arrabbattava
per sopravvivere.
Per esempio, tra il falegname di oggi e quello di allora corre
una grande differenza: quelli di oggi fanno le cucine, gli armadi,
le porte e sono bravissimi, ma non sono specializzati nel fare
bigonce, i tini o le botti. Nella specializzazione occorrevano
anche arnesi speciali: per esempio per rifinire una botte allinterno
occorreva unascia ricurva e un pialletto adatto. Lartigiano
vi lavorava allinterno prima ancora di mettere i fondi.
Una volta finita, prima delluso, veniva staniata, riempendola
dacqua.
Cera poi il fabbro ferraio che, quasi sempre, era
anche maniscalco.
Allora non era davvero un problema andare a ferrare due somari
o un mulo o il proprio cavallo, dal momento che ogni paese aveva
più di un maniscalco. Egli aveva già pronti e appesi
al muro una certa quantità di ferri per i muli, per gli
asini e per i cavalli. Ma lapplicazione allunghia
dellanimale era una vera arte: il maniscalco si appoggiava
circa allaltezza della pancia la gamba della bestia, oppure
un aiutante o lo stesso padrone gliela reggeva. Prima di tutto
spianava lunghia con una specie di paletta molto tagliente,
detta sgubbia, in modo da renderla ben levigata e liscia. In un
secondo tempo, con delle pinze a becco di locio, cioè danatra,
poggiava per pochi attimi il ferro incandescente sullunghia
dellanimale e la rifiniva per farci aderire bene il ferro.
Quindi riprendeva questultimo e lo faceva freddare nellacqua,
per poi applicarlo definitivamente, inchiodandolo allunghia
del somaro o del cavallo con chiodi speciali. Ma nel mettere i
chiodi si doveva fare molta attenzione: essi venivano piantati
in modo che ne uscisse la punta allesterno; la parte uscente
veniva tagliata e limata. Tutto questo perché i chiodi
non recassero danno alla bestia.
Il baschiaio e il legnaiolo.
Un mestiere praticamente oggi scomparso è quello del
baschiaio; non ci sono più le bestie per lavorare e quindi
non si fanno più neppure i basti.
Ma cosera un basto? Il basto era un arnese a fasce molto
larghe e imbottite che veniva applicato sulla schiena dellasino
o del mulo e fissato al corpo attraverso un sottopancia, al petto
e al sottocoda. Era molto importante che il lavoro fosse fatto
bene; il basto infatti doveva tornare a pennello sulla schiena
dellanimale per non provocare sbucciature e risultava talmente
robusto che era più facile che morissero prima il mulo
e il somarello, piuttosto che si logorasse il basto.
Ad ambo i lati venivano applicati sacchi, corbelli, cassette e
barlette. Ma qui occorre fermarsi un attimo per spiegare cosa
fossero le barlette: si trattava di recipienti in legno, tipo
botticelle oblunghe, con le quali si trasportavano acqua, vino
ed olio. E chiaro che ogni barletta avrebbe trasportato
per sempre lo stesso tipo di liquido.
Un lavoro a parte era quello del legnaiolo, che non aveva nulla
a che vedere con il falegname. Il legnaiolo faceva le sedie, qualche
scala, i manici per le vanghe e per le pale, per il forchino o
la zappa. Faceva inoltre le reti per legare il fieno ed è
proprio su questa ultima arte che ci soffermiamo un po:
le reti per il fieno erano quattro assi di legno rotonde e ben
sagomate, di circa un metro e dieci ciascuno. Tutte queste assi
erano unite fra loro da tratti di corda, di una quarantina di
cm. luno e venivano poi stesi per terra. Sopra questa attrezzatura,
stesa in terra, veniva messo il fieno. Una volta che le assi venivano
richiuse su se stesse e legate strettamente, la rete di fieno
era pronta per essere caricata, una per parte sul basto. Se la
bestia era particolarmente robusta, ne veniva applicata una terza
sopra la schiena.
I legnaioli, come si è detto, facevano anche le sedie e,
proprio a tal fine, andavano a tagliare la schiancia
verde, che serviva per fare limpagliatura. Dovevano badare,
però, che fosse luna buona, cioè il momento giusto
per farlo, altrimenti larbusto verde avrebbe perduto tutta
la sua efficienza. Fatta seccare bene, la schiancia veniva poi
rimessa a bagno, perché riacquistasse tutta la sua robustezza
per essere poi lavorata. A questo punto il legnaiolo avvolgeva
la schiancia a fune, nella sedia faceva il disegno del ragno e
il lavoro risultava di una robustezza incredibile.
La pagnieraia e il corbellaio.
Due arti possiamo mettere assieme: la pagnieraia e il corbellaio.
La prima, come dice il nome, è colei che faceva i panieri,
mentre il corbellaio faceva i corbelli, cioè grossi cestoni
di strisce di legno che venivano poggiati sul somaro, ai due lati
del basto e riempiti di cose varie.
Per fare i panieri si usavano i venchi , cioè
una specie di salici selvatici che hanno rami sottili e che, diversamente
dalla schiancia, hanno una consistenza legnosa. Avevano una buccia,
che andava tolta e, a tal fine, si usava un sistema quanto mai
originale: si prendeva un legno, si produceva in cima a quello
unapertura di circa 10 cm. nella quale veniva inserito dalla
parte della cima il venco. Tirandolo poi da capo a piedi, questo
lasciava la buccia. Come la schiancia, anche i venchi venivano
seccati; poi dovevano rimanere a mollo per riprendere la loro
flessibilità ed essere lavorati. Le mani sapienti della
donna li avvolgevano e li rincurvavano in cento modi, senza usare
né colla né chiodi; da una tale operazione prendevano
forma panieri e ceste che erano adoperati e non finivano mai.
Il corbello può far pensare ad una grande cesta e ad una
lavorazione simile, in realtà era tuttaltra cosa.
Per fare questo lavoro, il corbellaio doveva trovare una grande
quantità di pedagnòli di castagno.
Ma cosa sono i pedagnòli? Si tratta dei nuovi virgulti
o buttoni del castagno selvatico. La lavorazione era lunga e complessa:
prima di tutto venivano tenuti a bagno, perché si mantenessero
freschi, per togliere bene la buccia e poterli lavorare meglio.
Poi con un ronculino , uno speciale arnese a forma
di mezzaluna o di piccola falce, il corbellaio li sbucciava, togliendo
anche tutti i pelucchi. Successivamente ogni legno era tagliato
a strisce per tutta la sua lunghezza. Cominciava da qui il lavoro
vero e proprio.
Le strisce venivano appuntite da una parte e poi stese a terra
una accanto allaltra, piuttosto fitte con la punta rivolta
verso un unico centro, cioè a raggiera. Altre venivano
intersecate al fondo con le prime e fissate ad un cerchio; queste
costituivano la base del corbello. Salendo, ogni striscia era
intersecata con altre che correvano in modo trasversale; in cima
venivano avvolte ad un altro cerchio, costituendo così
lorlo del corbello. Per essere fermate occorreva un altro
cerchio esterno. Tutti questi cerchi erano fatti con buttoni piccoli
e particolarmente pieghevoli.
Lo stagnino e il materassaio.
Un mestiere che non esiste proprio più è lo stagnino.
Ce nerano diversi negli antichi paesi, ma loro, pur avendo
una bottega, erano usi girare anche nelle campagne, da un podere
allaltro, perché la gente, a quel tempo, prima di
comprare brocche o tegami o imbuti nuovi, li faceva rattoppare,
fino a che non fossero diventati veri e propri colabrodi. Così
lo stagnino, carico di arnesi come un somaro, passando da un podere
allaltro, rattoppava i secchi, i paioli, gli scaldini o
i canali dei tetti ed in tal modo rimediava qualcosa per sfamare
sé e la famiglia.
Oggi gli stagnini si sono trasformati in idraulici; il lavoro,
per quanto pesante, è meno duro e, senza dubbio, più
remunerativo.
Anche il sarto e il calzolaio usavano girare per i poderi come
lo stagnino e come lui si dedicavano a lavori di aggiustatura
e anche di fattura ex novo. Racconta Francesco Prunai nel suo
libro: Ora e sarto un e trovi e si pe
caso / ciai da sdrucì e ricucì e cappotto,
/ da rivortà la giubba e metta e raso / pe
fodaralla o fodara e panciotto, / devi smette lidea
e sei forzato / a ricompratti tutta chesta robba / nde negozi
già fatta o lì, a mercato,
/ ma ci largheggi,
o si stringe o fa la gobba!
.
Insomma i vestiti non tornano più a pennello come una volta.
Parliamo del materassaio; ma prima di descrivere il suo lavoro,
occorre fare una premessa. Era uso anticamente che quando una
ragazza andava sposa, assieme al corredo, doveva portare il materasso
ed il coltrone con i guanciali di lana pecorina. Dopo averla acquistata,
passava molti giorni a purgarla, pulirla per eliminare anche i
bruscoli, gli spini e altro; a questo punto entrava in azione
il materassaio che preparava il materasso.
Certo è che dopo averci dormito un paio di anni, la lana
si faceva a bozzi e si appiattiva, così aveva bisogno di
essere ripulita e allargata. Così doveva entrare di nuovo
in scena il materassaio. Andava a lavorare a domicilio, perché
non aveva un posto adatto e, le più volte, si metteva su
un cortile. Stando in ginocchio, batteva la lana sul selciato
con due fruste di ontano e la polvere e i peli che si sollevavano
gli procuravano la tosse e il tappo al naso .
Successivamente i materassai comprarono un attrezzo formato da
due tavolette, che permettevano loro di svolgere il lavoro un
po più rapidamente. Le tavolette erano così
composte: entrambe erano irte di chiodi ricurvi, tutti della stessa
misura; una era fissa,e su di essa veniva poggiata la lana; laltra
veniva manovrata a mano in avanti in modo da dipanare la lana.
Le vecchie bacchette furono bruciate al fuoco del camino.
Lo spaccasassi e lo scalpellino.
Fino allimmediato dopoguerra non esistevano mestieri
che si potessero definire leggeri; ma certamente tra i più
duri cera lo spaccasassi e lo scalpellino.
Il primo se ne stava seduto a gambe larghe sopra un cuscino di
canapicchia o derba, rilegata con la ginestra e, lungo i
margini delle strade, allora tutte a breccia, con un martellino,
batteva i sassi tutta la giornata. In estate si lessava per il
calore e più beveva più sudava. Di inverno era ancora
peggio: il povero pastrano che lo copriva, non gli
impediva certo di morire di freddo. Le sue mani, per le screpolature
che lì si formavano, non riuscivano quasi neppure a chiudersi,
tanto che, anche se avesse voluto, non avrebbe più potuto
fare a cazzotti. Come si curava? In una maniera certo affatto
originale! Ma sentiamolo dalle parole di Francesco Prunai:
La pece bella carda, pe cerotto, / colava sopra e doppo
ci mettiva / un pezzetto di carta
/ eh, puarìno, /
che patimenti pe che du sordini!!
.
Insomma pece e carta erano le sue medicine.
Se invece avevi bisogno di una soglia per la porta o per la finestra,
chiamavi lo scalpellino. Se ne andava alla cava e, con unocchiata
esperta, sceglieva un pezzo di trachite privo di venature e di
screpolature. Dopo averlo scalzato bene in basso con la mazza,
staccava da quel masso il pezzo giusto che gli serviva e, stando
in ginocchio, batteva con un mazzolo sopra uno scalpello per dargli
la forma voluta semplicemente scalpellata oppure levigata.
Perché il lavoro fosse preciso, si serviva solo di un regolo
e di una squadretta di legno.
Tornava a casa distrutto dalla fatica e, anche lui, spesso con
le mani rovinate.
Il carbonaio e il segantino.
Per rimanere in tema di mestieri pesanti parliamo del carbonaio
e del segantino.
Quando era lepoca del taglio del bosco, il carbonaio partiva
per il suo lavoro, assieme a tutta la famiglia e stavano fuori
per diverso tempo. Portavano con loro le provviste e anche i cani
e i gatti che avevano il compito di stare a guardia degli equipaggiamenti.
Si costruivano un capanno di frasche che veniva ricoperto di zolle
e muschio e quella, per un po di tempo, doveva essere la
loro casa, qualunque fossero le condizioni atmosferiche. Ognuno
aveva per letto la rapazzola e come compagnia, avevano
i moscerini, le zanzare, i topi e gli scorpioni.
La mattina si svegliavano molto presto e il lavoro cera
per tutti: per prima cosa si doveva spianare la terra per farci
una piazzola dove veniva cotto il carbone. Ma qual era il procedimento?
In mezzo a quella piazzola il carbonaio sistemava dei legni in
modo che formassero una cupola, mettendone alcuni dritti e altri
di traverso. Il tutto veniva ricoperto di zolle, facendo attenzione
a lasciare aperto qualche foro per dare sfogo al fumo. Una serie
di fori alla base servivano per fare entrare laria, altri,
più in alto, per fare uscire il fumo.
Una volta acceso il fuoco, il lavoro diventava ancora più
pesante per il povero carbonaio: la fiamma non doveva ardere,
ma solo rimanere la brace. Così di giorno e anche di notte
il povero crischiano era costretto a dare sempre
una controllatina. Il sacrificio durava per giorni finché,
crollando il tutto, si aveva la certezza che ogni legno era diventato
carbone e da quel momento in poi il nostro uomo diventava nero
come la pece. E in tali condizioni versava tutta la famiglia.
Il mestiere del segantino oggi, grazie alle macchine, è
quasi un gioco: le piante non si tagliano più con laccetta,
la motosega fa faticare poco e il taglio viene fuori bello netto.
Il trattore, con il suo lungo braccio e le sue unghione, è
capace di sollevare qualsiasi legno e di buttarlo sopra il camion
come se fosse un fuscello. Una volta, invece, ci voleva molta
forza e resistenza fisica, né ci si doveva impressionare
se le mani si riempivano di calli e vesciche.
Quando il castagno era vecchio e non dava più frutti, andava
tagliato. Così nel mese di marzo, per la tagliatura, più
di un segantino era impegnato.
Prima di tutto si doveva fare per terra una buca abbastanza profonda,
sullorlo della quale doveva sporgere il tronco che si voleva
segare. Esso doveva sporgere di un bel pezzo sopra la buca perché
fosse possibile segarlo. Al fondo veniva fissato con puntelli
in modo che non finisse di sotto. Quindi, perché il taglio
fosse bello dritto, i segantini prendevano un cordino intriso
di fuliggine e lo tendevano forte, sì che quello lasciasse
sul tronco un rigo nero che veniva seguito durante il taglio.
A questo punto uno dei due uomini se ne andava di sotto nella
buca, e laltro si metteva in piedi sopra il tronco. Tenendo
ambedue tra le mani la sega e facendo unincredibile forza
sui manici, i due uomini spendevano tutte le loro energie per
segare quello che oggi è un semplice tronco, ma che allora
era un vero e proprio mostro.
Pensate poi al poverino cui toccava stare di sotto! La segatura
gli andava a finire negli occhi, nel naso, nelle saccocce, dappertutto
e, alla fine, respirare diventava unimpresa. Il lavoro era
lungo. Per riprendere fiato, i segantini si scambiavano il posto
di lavoro e, ogni tanto, si fermavano per fumare una sigaretta,
fatta con una cartina e il trinciato forte o per fare una bevuta
Pensate che sapore doveva avere quella sigaretta! Altro che le
dieci o le venti che uno può fumarsi oggi comodamente!
Il barrocciaio e il tracculone.
A quei tempi il trasporto della roba, o sulle spalle o con
lanimale, era allordine del giorno. Pensiamo per un
attimo allimmagine ormai lontana delle donne che, con la
corolla in capo, trasportavano ceste di bucato, brocche dacqua
e il capisteio col pane.
Per il trasporto di grossi carichi occorreva il Barrocciaio.
Costui, viaggiava per conto di terzi con un carro particolare,
appunto il barroccio, un carro con due ruote piuttosto grosse
e cerchiate, col pianale non tanto largo, terminante sul davanti
con due stanghe alle quali era attaccata una bestia da tiro, spesso
affiancata da unaltra.
Per le strade tutte sassose dei paesi di montagna luomo
e la bestia rimanevano spesso senza fiato, ma dovevano andare
avanti sotto il sole cocente o sotto il temporale.
Per laria risuonavano le bestemmie più originali,
con le quali il barrocciaio voleva insegnare alla bestia lubbidienza
e questa, dopo tanta fatica, riceveva spesso più frustate
che fieno.
Preso da profonda commozione per la sorte dei poveri muli e somarelli,
Prunai ci dice: E stanimali, come mi rammento,
/ la striglia la vedivano di rado
/ bisognarebbe fagli e
monumento / pe chello chhanno fatto nde contado!
.
Lungo le strade più frequentate esistevano locande per
una sosta: luomo si faceva un quartino e una belle crosta
di pane, mentre la bestia si mangiava un po di biada dalla
sacca che aveva legata al muso.
Su per lAmiata di barrocciai ce nerano tanti e chi
ha reso famoso il loro mestiere è stato Davide Lazzeretti,
di Arcidosso, uno di loro. Fece questo mestiere per tanti anni;
era ignorante e grande bestemmiatore, ma sembra che tutto ad un
tratto cambiò vita. Così si legge nel libro di Prunai:
Santo e chiamonno e Unto del Signore
!
/ Dappertutto di lui si sparse e sono: / si
ci fussero sempre e barrocciai / di certo laveribbeno
patrono, / come ci hanno Crispino e calzolai! .
Per svolgere il suo lavoro anche il tracculone, un venditore ambulante,
aveva bisogno dellasino. Si alzava presto la mattina e portava
baccalà, filo, sapone, agli, mandarini e altre cose; girava
per i poderi cercando di vendere la sua merce o di barattarla
prima di fare ritorno a casa. Tornava col ravaggiolo, le uova
di gallina, polli, oche, ricotta e formaggi che avrebbe venduto
la mattina seguente.
Allora davanti alluscio di casa, sopra un tavolino coperto
con una carta o un fazzoletto, metteva la ricotta, il pecorino
e le mosche ci facevano sopra il balletto. Metteva invece i pollastri
dentro a delle ceste chiuse, accanto al tavolo. Verso lora
di merenda di tutta quella merce non cera più niente;
i pollastri venivano venduti specialmente i giorni precedenti
la domenica o prima di una qualsiasi altra giornata di festa.
Allora non si mangiava di certo carne tutti i giorni!
Alcuni mestieri particolari, lo strolago, il cantastorie, il cenciaio e larrotino.
Come il tracculone, anche i campagnoli esponevano alluscio
di casa i prodotti del loro lavoro;così trovavi chi vendeva
i sedani e gli odori del suo orto, i fagioli, il cavolo e i pomodori,
qualche cesta di pere o di fichi, prima che passerotti e gazze
e mosche li riducessero alla metà. Oggi non è più
possibile perché occorre la partita IVA, il registratore
di cassa e tanti permessi, cosa che non era richiesta allora.
Così per le strade del paese si poteva trovare chi vendeva
liberamente chicchi, lupini, zuccherini, mentine colorate, semi
e noccioline che piacevano tanto ai bambini. Qualche venditrice
era tanto brava che sapeva convincere anche il più taccagno
tra gli uomini: Che babbo sei? diciva A sta
criatura / te nun gli compri gniente?! . E ancora:
Fagli assaggia diciva ste mentine
/
gli fanno bene anche co le doglie! ; così gridava
se vedeva un uomo con la moglie accanto e intanto preparava i
cartocci, attenta a non passare la misura. Poi cera chi
vendeva le anguille, i lupini e anche chi aveva il tiro con la
carabina o con la piumetta o con i piombini e cera poi chi
vendeva il cocomero, con un banchetto in mezzo ad una nuvola di
mosche, ma tutti erano bravissimi nella loro arte di richiamare
gente al proprio punto di lavoro.
Assieme a queste donne di cui abbiamo appena parlato cerano
poi lo strolago e il cantastorie. Ma, riguardo al primo,
sentiamo direttamente quel che ci dice Prunai: Co
ste donnette chora hai mentovato, / riveggo chelli
co la gabbiettina / e un pappagallo drento, ammaestrato,
/ che pescava co becco na cartina / andera scritto
tutto e tu destino: / la salute, lamor, quando
crepavi, / e si eri becco
e tutto pe n sordino!
.
E mentre girellavi per i banchi sentivi il suono dolcissimo di
un organetto che cantava lamore, di amanti sfortunati accoltellati
in mezzo alle lenzuola, di storie di orfanelli e di briganti.
Tutti ascoltavano attenti e, spesso, una lacrima faceva luccicare
gli occhi; la canzone era scritta in un foglio, ognuno la prendeva,
se la portava a casa e se la imparava alla svelta. In questo modo,
allora, le storie si tramandavano di padre in figlio.
E nel bel mezzo della mattinata, tutto ad un tratto potevi sentire
risuonare per laria: Donne, cè e
Cenciaiooo!! . Allora vedevi le donne scendere giù
per le scale nella strada coi fagotti in mano e consegnare al
cenciaio maglioni, cappotti, giubbotti, calzoni e gonnelle, tutta
roba vecchia che luomo prendeva e pesava con una bilancia
per dargli un valore, oppure, il più delle volte, faceva
a occhio. Roba che, fra toppe e frittelle varie, non aveva più
né un colore né una forma e che oggi butteresti
dentro il cassonetto della spazzatura, senza neppure pensarci
un po.
Un paio di volte al mese capitava, invece, larrotino. Appena
arrivava, subito il sarto, il calzolaio, il macellaio e le massaie
del paese gli portavano le forbici, i coltelli e gli arnesi del
loro mestiere. Quella roba che, spesso, gli veniva consegnata
tutta arrugginita, tornava al proprietario nuova di zecca, come
appena uscita di fabbrica.
Ma come lavorava larrotino? Aveva un piccolo macchinario
di legno; da un bussolotto lacqua scendeva giù a
filo sopra la mola. Ogni tanto luomo accostava allocchio
larnese che stava lavorando, per fare un controllo. Dopo
che aveva finito il lavoro, incartava gli oggetti già arrotati
in un po di carta mezza acciaccata e li consegnava ai rispettivi
proprietari.
Mentre lavorava se ne stava tutto ingobbito sopra la macchina
da lavoro, con un piede per terra e laltro sopra il pedale
che doveva fare girare la mola.
Bei tempi andati, in cui tutta la vita era arte e ogni immagine
sembrava un quadretto!
Lo spazzacamino e il segatore.
Assieme al carbonaio, di cui abbiamo già parlato, il
più sporco era lo spazzacamino.
Appena chiamato si presentava al lavoro, sempre accompagnato da
un garzoncello che, spesso e volentieri, era il figliolo.
La cosa principale era dare una bella pulita alla canna fumaria
per riallargarla e liberarla di tutte le impurità, sì
che il camino potesse tirare bene e i fumi salire senza impedimento.
A tale scopo lo spazzacamino dal tetto calava giù per la
canna una bella corda lunga che arrivava fino alla stanza dovera
il caminetto. Qui il garzoncello la prendeva e legava al capo
della fune del filo di ferro o uno spazzolone o del filo spinato,
ben raggomitolati. A questo punto ci faceva passare con un nodo
la sua corda e tutti e due, il garzone di sotto e lo spazzacamino
di sopra, cominciavano a tirare a sé alternativamente le
funi, a effetto grattacacia.
A ogni tirata veniva giù una fuliggine, assieme a tanto
di quel polverone che riempiva tutta la stanza. Immaginate di
che colore diventava quella povera creatura che stava in basso:
rimanevano bianchi solo gli occhi e i denti, il resto era una
figura nera che, tossendo, correva in mezzo a quel fumo per cercare
un po daria pulita. Dopo si dava una risciacquatina,
ma purtroppo non si poteva lavare i polmoni.
Così tristemente conclude Prunai: Che lavoro anche
chesto!
Quanti citti / ci aviranno rimesso la salute!! /
Pativano co babbi sempre zitti / pe n piatto di minestra
e du beute! /.
Tra i tanti lavoratori, uno di loro, non certo il più fortunato,
conosceva lafosa calura delle estati maremmane, dove la
zanzara portatrice della malaria ogni anno mieteva le sue vittime.
Era questo il segatore, al quale toccava di andare a mietere il
grano giù per la Marsiliana o a Orbetello o dove la Fortuna
o la Scarogna lo portava.
Oggi il grano si taglia e si lavora meccanicamente, ma allora
il poveruomo doveva fare tutto, solo con la forza delle
proprie braccia e con laiuto di una semplice falce.
Né il lavoro durava un giorno, ma settimane, prima che
ettari e ettari di pianura fossero stati falciati. Giovani e vecchi
partivano dai paesi di montagna e di collina verso le zone più
basse e i rischi che dovevano affrontare non erano sufficienti
a fermarli.
Si alzavano la mattina molto presto e, prima che cantasse il gallo,
gli uomini erano già per i campi con le spalle curve a
tagliare il grano e a farne barzi . Dopo le otto
cera una sosta per la colazione a base di pane e acqua,
che certo non doveva tenere molta sostanza. Di lì al tocco
si lavorava di seguito per poi fermarsi di nuovo e mangiarsi un
piatto di panzanella dentro a una ciotola di legno, qualche zucca
rifatta nel tegame o qualche fiore fritto, senza nemmeno un gocciolino
di vino. Appena il tempo di fumarsi la solita sigaretta fatta
con la carta e il trinciato e subito i segatori si rimettevano
allopera con la loro falce.
Nelle ore paniche, dal mezzogiorno alla sera, il poveretto doveva
certo ripensare alla frescura delle sue colline, dei suoi boschi
e dellacqua zampillante di montagna, mentre il sole cocente
e assassino gli batteva sulla fronte e le cicale lo rintronavano
con i loro cori. E il suo paese gli doveva apparire molto lontano,
quasi irraggiungibile!
Buttata giù la cena co lombùto
, il segatore se ne andava a dormire subito dopo, dentro
a un capanno, situato accanto allaia. La vita di un condannato
ai lavori forzati non doveva essere molto diversa.
Oltre alla fatica e alle privazioni, era sempre in agguato per
loro la malaria; qualcuno allimprovviso cominciava a tremare
e a battere i denti, la febbre lo faceva star male e, anche se
non moriva, per molto tempo non era più lui.
La malaria a quel tempo non perdonava e, per pochi soldi, giovani
e vecchi mettevano ogni anno a rischio la propria vita. Lamara
Maremma diventava una tomba per molti poveri abitatori della montagna.
Nellimmediato dopoguerra è stata definitivamente
cancellato questa piaga che rendeva invivibile una terra che oggi
è da ritenere unoasi di pace e di serenità,
in un mondo che, per la maggior parte, ha perduto la sua primitiva
purezza e la sua verginità.
Lombrellaio e il pagniaio.
Ogni tanto in paese faceva una capatina lombrellaio.
Portava a tracolla un sacchetto dentro il quale cerano stecche,
tela nera e manici di ombrello. Dentro un altro contenitore,
la borgetta , aveva gli strumenti da lavoro: pinze, ago,
un gomitolo di filo di ferro.
A volte la gente gli portava ad accomodare ombrelli completamente
distrutti; lui, con santa pazienza, seduto a gambe larghe sul
marciapiede, si metteva a lavorare e pian piano rifaceva un ombrello
quasi nuovo.
Oggi la gente non ci pensa due volte a buttar via ombrelli semi
nuovi, solo perché hanno qualche strappino. E
quattrino / oggi nun manca, / anzi ce nè tanto! /
Na vorta, infece, drento ogni saccoccio / cera la
morte come a Camposanto!
; e così i poveracci
ci pensavano prima di buttar via qualcosa.
Ma vediamo ora chi era e cosa faceva il pagniaio.
Ogni estate, dopo la metà di agosto, lui andava nelle zone
collinari di Saturnia e Semproniano, dove si trovavano le querce
e altre piante viscovìne. In quel periodo tale vegetazione
è piena di quelle palline che, lavorate in un certo modo,
servono per fare la pania.
Stavano in cima agli alberi tutto il giorno a pelare e a tirare
giù quelle palline ed erano infastiditi durante il lavoro
da nuvole di mosche e tafani che non davano requie. Si trovavano
spesso con le gambe e le braccia scorticate e con i vestiti strappati
dalla corteccia e dai rami di quelle piante. Fatto il raccolto,
partivano con lasino per fare ritorno a casa. Ma non gli
spettava neppure un minimo di riposo, perché subito dovevano
mettere quei pallini a cuocere in un paiolo, al fuoco del camino
e rigirarli spesso. A fine cottura veniva fuori un pastone che
luccicava come una cosa unta e che, in seguito, era rovesciato
sul selciato.
Qui cominciava loperazione della pestatura: con i piedi
scalzi e scoperti anche i polpacci, il pagniaio pestava adagio
e in tutti i punti quel pastone che, via via, diventava sempre
più appiccicoso. Era un po il contrario delluva,
che più la pesti e più liquida si fa.
Ma il lavoro non era finito qui. Dovevano infatti portare la pania
ai pozzi per lavarla come fosse un panno, altrimenti il prodotto
non era giudicato buono e non era ben pagato.
Ma a che serviva la pania? Qualcuno la comprava perché
occorreva nelle navi, altri la mettevano in alcuni punti della
vigna o nei poderi per impedire agli animali dannosi di combinare
guai; così la mattina si potevano trovare topi o fringuelli
o passerotti con le zampette rotte, appiccicati lì alla
pania e non uno o due, ma anche una trentina tutti insieme.
Il Norcino e la Tessitora.
Parliamo ora del Norcino.
Allarrivo del mese di novembre e ai primi di dicembre, chi
possedeva un maiale ed abitava in paese, lo portava al Mattatoio,
( che era detto Macellaccio ), per la macellazione. Chi invece
abitava in campagna, chiamava direttamente il norcino.
Lanimale veniva ucciso infilandogli uno spillone direttamente
nel cuore.
Una volta morta, la povera bestia veniva messa sopra una specie
di brace, di cui ora spieghiamo la struttura: si trattava di due
pietre oblunghe sotto le quali era alimentato del fuoco tramite
rami di ginestra, che lo stesso padrone del porco doveva procurare.
Il maiale intero veniva fatto rotolare sopra questa brace, in
modo da bruciare tutte le setole e solo quelle. Così si
pelava il porcello.
Subito dopo lanimale veniva attaccato in alto e aperto nel
mezzo dalla gola fino in fondo e immediatamente il veterinario
gli controllava il fegato, il cuore e i budelli per vedere se
era buono per farci le salsicce, fegatelli e tutto il resto degli
insaccati.
Una volta in alcune zone dei vecchi paesi sorgeva tutta una serie
di castruzzi che formavano quasi una contrada; lì venivano
allevati i maiali che, da piccoli invece erano stati tenuti nella
stalla.
Certamente quelle zone non dovevano mandare un gran bellodore,
ma anticamente cera così tanta fame che il maiale
costituiva veramente un mezzo fondamentale di sopravvivenza.
Uscito dal mattatoio, il porcello veniva riportato in casa e qui
appeso a testa in giù, con sotto una catinella, perché
scolasse bene il sangue e doveva rimanere per qualche giorno in
quella posizione per asciugarsi bene e frollare.
A questo punto entrava necessariamente in ballo il norcino, per
fare il rigatino, la finocchiona e tutto laltro ben di Dio.
Ma perché lo chiamavano norcino? Perché i più
famosi in questo lavoro venivano proprio da Norcia.
Oggi questo lavoro non lo fa più nessuno, i castrucci non
ci sono più, né si vedono più in giro maiali.
Daltra parte, se vuoi delle salsicce o un po di soppressata,
è molto più comodo recarsi al macello.
E chiudiamo la nostra carrellata di antichi mestieri, parlando
della Tessitora.
Nei tempi passati era usanza farsi ai ferri i maglioni, calze,
cappellini di lana o cotone, mutandoni e altro e davanti alle
porte delle case le vecchie filavano con la rocca e il fuso per
buona parte della giornata.
Ma quando qualcuno voleva una coperta, lavori in tela e altre
cose che richiedevano una lavorazione particolare, doveva rivolgersi
alla Tessitora.
La gente le portava solo il filato, al resto pensava tutto lei
e da quelle mani uscivano dei tessuti belli e indistruttibili.
La Tessitora se ne stava per ore e ore seduta davanti al telaio
e, anche da fuori, si sentivano i colpi secchi del pedale.
Ma come funzionava il telaio? Esso aveva lordito nel quale
con un sistema di fusi venivano intrecciati i fili e affinché
il tessuto risultasse molto consistente, a colpi secchi di pedale
i fili venivano tirati ed accostati al massimo.
I lavori al telaio durarono fino al dopoguerra, poi pian piano
la tessitora scomparve dalla scena, come, del resto, la maggior
parte dei vecchi mestieri. Essi sono svaniti perché lindustria
ha preso il sopravvento ovunque e anche nei paesi più piccoli
resta solo la loro memoria, non si sa ancora per quanto tempo.
Di qui limportanza che un tale patrimonio venga salvato,
fissandolo per sempre attraverso immagini, documentazioni scritte
e rappresentazioni che ci diano la possibilità di riscoprire
le nostre stesse antiche radici e quindi quella parte di noi che
rischierebbe, altrimenti, di rimanere irrimediabilmente sepolta.
Libera rielaborazione in italiano da E meschieri duna vorta di Cecco de poro Lisio di Buchettino (Francesco Prunai), I Portici Editori, 1999. (88 pagine).
Rita Gherghi
Il Cocculaio e il Mugnaio.
Nel periodo estivo, verso il sol leone, il ginepro aveva le
sue bacche rosse e celestine, pronte per essere raccolte.
Diverse persone partivano di buonora per le zone del seggianese
o anche di Roccabelgna per coglierle: ogni raccoglitore, munito
di un bastone, batteva sui rami e le bacche cadevano dentro un
corbelletto che era collocato sotto. Passavano da un ginepro allaltro,
interrompendosi solo per mettersi qualche cosa sotto i denti.
Non era raro che tale battitura disturbasse una vipera, che reagiva
secondo suo costume, allimprovviso.
Queste bacche erano molto ricercate e pagate bene perché
servivano nella medicina, nelle distillerie per fare il Gin e
nella gastronomia.
Venivano a ritirarle dei mercanti da Montalcino o da Vivo dOrcia
e, come è loro costume, cercavano sempre di evidenziare
difetti nel prodotto per pagarlo di meno.
Un altro mestiere ormai scomparso dalle nostre parti è
il Mugnaio.
E sì che abbondavano nelle varie zone!
Costruiti in riva ai torrenti o vicino ad una sorgente, i mulini
sfruttavano lacqua per produrre lenergia necessaria
al movimento delle macine.
Da ricordare in Casteldelpiano il mulino della Sansina, il Mulinaccio,
il Mulino delle Conce che presto andò ad elettricità,
come quello alla Casella del Corsini; ma è ricordato ed
è tuttora imponente in paese il Mulinone. Si ricordano
anche il Mulino del ponte di Montegiovi, quello del ponte della
Pieve di Lamula e quello della Lama, sulla strada che porta a
Seggiano.
Mentre le macine giravano, il mugnaio faceva scorrere tra le tre
dita della mano destra la farina che pioveva nel cassone, per
giudicare se il lavoro procedeva bene.
Era sempre infarinato, come infarinato era tutto il locale e,
naturalmente, laria che respirava gli intossicava i polmoni
ed aveva sempre la gola infarinata.