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La " Devotio moderna ", la grande Riforma luterana

e l’episodio del Savonarola

 

Il preludio della riforma religiosa comunemente nota come Riforma o Protestantesimo va cercato molto indietro nel tempo.
Lo spirito di protesta contro il disordine morale e disciplinare della Chiesa, la profonda avversione alla gerarchia ecclesiastica considerata responsabile di tale disordine, l’aspirazione alla rinascita del Cristianesimo così detto “ primitivo “, sono motivi presenti in larghe correnti di opinione fin dal 1100. Se ci pensiamo bene un forte anelito per un Cristianesimo semplice, ridotto all’esempio dato dal Cristo è presente anche nella fede di frate Francesco.
Tali motivi, precedentemente elencati, daranno origine alle eresie del ‘200; verranno ripresi arditamente da Ockam, Wycliff e Huss che per primi estenderanno esplicitamente il concetto della riforma dal campo morale a quello delle istituzioni ecclesiastiche e, addirittura, ai dogmi.
Un certo ruolo fondamentale sulla Riforma è giocato pure dall’Umanesimo, dalla sua tendenza a servirsi per lo studio della Scrittura del metodo critico già applicato ai classici, nonché dalla sua aspirazione ad una morale fondata sopra una profonda vita spirituale e non ridotta ad un esteriore conformarsi a norme imposte dalla gerarchia o cristallizzate nella tradizione.

Nasce così, già dalla fine del ‘300, la Devotio moderna, un movimento di rinnovamento religioso, ispirato essenzialmente dall’olandese Gerard Groote. Alla sua azione si ispirò Tommaso di Kempis, autore dell’” Imitazione di Cristo “. Con lui l’esperienza della Devotio moderna raggiungeva la sua più alta espressione. La vita del Cristo diventava il punto di riferimento quotidiano delle scelte cristiane.

Su tali basi prende le mosse anche il pensiero di Erasmo da Rotterdam ( 1469 – 1536 ), partigiano di un rinnovamento della vita cristiana e dell’organizzazione ecclesiastica, che le riconducesse entrambe al modello offerto dal Nuovo Testamento e alla predicazione del Cristo, quindi alla Chiesa primitiva.
“ Io vorrei – dichiara Erasmo – che il puro e semplice Cristo si imprimesse profondamente nella mente degli uomini, e credo che la miglior cosa per giungere a ciò sia il filosofare risalendo alle stesse fonti, con la conoscenza delle lingue fondamentali “.
La tesi di Erasmo era profondamente moderna: l’etica del Cristianesimo, se veniva letta nella sua integrità, senza quanto aggiunto nel Medioevo, era analoga, anche se più profonda, alla morale del mondo classico.
La polemica contro la Teologia, che allontana dalla vera filosofia del Cristo, fu condotta magistralmente nell’” Elogio della pazzia “ ( 1509 ), dove gli essenziali elementi di questo Cristianesimo razionale, di questa filosofia del Cristo, sono contrapposti alla cultura teologica rimbalzata dal Medioevo con tutte le sue confusioni, astruserie ed inutilità.
Nella sua opera l’umanista, ben lungi dal considerare l’astratta razionalità come la fonte esclusiva della vita spirituale, guarda con indulgenza ai miti, alle passioni che danno fiducia ed entusiasmo al vivere, ponendo al sommo di queste provvidenziali “ Stultitiae “ la sublime “ follia “ evangelica della passione e della morte del Cristo, venuta a smentire la “ miope saggezza “ dei dotti.
Però Erasmo fa una netta distinzione tra le forme di “ pazzia “ che assecondano la parte migliore delle energie vitali e altre invece che le pervertono o le irrigidiscono in costruzioni arbitrarie ed innaturali.
Tali sono per Erasmo le follie che conducono il sapere e il potere, quando vengono posti al sevizio di interessi limitati o di caste privilegiate. Di qui nascono le devozioni conformistiche, le ipocrisie, i culti esteriori, ormai diversi dalla filosofia di Cristo, che era soprattutto Carità e Amore.
La critica non risparmiava certo i pontefici, accusati di non aver realizzato affatto, come rappresentanti di Cristo in terra, quella imitazione della vita di Cristo che li avrebbe portati piuttosto alla povertà e non alle ricchezze.
Nasceva anche l’invito alla Tolleranza, a non perseguitare per motivi religiosi. I malvagi erano gli intolleranti, non gli atei o coloro che venivano definiti eretici.

La critica al malcostume ecclesiastico è presente anche nel pensiero di Martino Lutero ( 1483 – 1546 ): l’indossare abiti sacri, lo stare in chiesa o in luoghi pii, il pregare materialmente, il digiunare, il recarsi in pellegrinaggio ecc., sono da considerarsi opere e riti che possono essere compiuti anche da “ un uomo malvagio, da un ipocrita, un baciapile “.
Da questa critica delle opere, intese come puro comportamento esteriore, egli passa alla svalutazione delle opere anche nel loro significato più profondo e genuino di impegno ad agire in base ad un’intima adesione alla legge divina.
Di qui egli arriverà a delle conclusioni così drastiche le cui conseguenze porteranno alla rottura con la Chiesa di Roma.
Certo su di lui giocheranno un ruolo fondamentale anche cause di ordine materiale, cioè politiche e sociali: la crescente ostilità della borghesia finanziaria dei vari paesi per l’ormai insopportabile e dannoso fiscalismo papale e, per quanto riguarda la Germania, il nascente sentimento nazionale, sfociante in avversione per la romanità.

Lutero fu una personalità piuttosto complessa, in quanto in lui dominarono sia la cultura umanistica, sia il pregiudizio e la tormentata religiosità medievale. Nacque in Sassonia nel 1483 da famiglia di origine contadina. L’ambiente in cui trascorse l’infanzia fu rozzo e superstizioso; gente, la sua, con una religiosità piuttosto cupa, nella quale la paura di Dio si combinava con le vecchie fantasie pagane e della caccia alle streghe. Credevano che la natura e il paesaggio fossero popolati da folletti e spiriti maligni, che tormentavano l’animo dei contadini.
Lutero studiò ed entrò poi a contatto con la cultura umanistica, ma in lui la fede rimase sempre tormentata dal dramma del peccato ed il terrore dell’Inferno.
Partendo dall’episodio della colpa di Adamo, Lutero afferma che un tale evento ha comportato non solo una semplice diminuzione della libertà nel soggetto, ma anche il completo annientamento della sua capacità di fare il bene. Prigioniero di un orizzonte fuorviante – in quanto rivolto non più a Dio ma a se stesso – l’uomo decaduto non può sfuggire ad una sorta di coazione al peccato. Rispetto al bene, la volontà è come morta.
Di qui l’inutilità delle opere; attraverso esse, infatti, l’uomo decaduto si illude di acquisire con le sue forze meriti in verità irraggiungibili. Avviene così che l’osservanza della legge, in cui molti credevano di giungere alla salvezza, non serva a nulla per la vita futura dell’uomo. Anzi una tale credenza implica la sottovalutazione dell’ignoranza dell’assoluta alterità esistente tra l’uomo e Dio.
Egli giunse così alla conclusione, richiamandosi a S. Agostino, che il fedele può giungere alla salvezza solo per mezzo della fede e della grazia di Dio, senza alcun bisogno delle opere. Le pratiche non servono, quello che conta è la devozione e il contatto con Dio è diretto per il fedele, senza alcun bisogno dell’intervento della Chiesa. Quest’ultima dunque perde la funzione mediatrice che ricopre nel cattolicesimo ortodosso, in quanto unica depositaria delle verità di fede e unica mediatrice tra l’uomo e Dio. Lutero nega anche la validità all’assolutismo del Papa e la nega anche alla maggior parte dei sacramenti. La sua Chiesa non era più quella cattolica e romana: la sua è una Chiesa con due soli sacramenti, senza clero ordinato, senza dogmi, che non offre puntelli ed aiuti a chi non abbia la fede alta e pura.
La salvezza è il frutto della “ grazia di Dio “ che, nel suo disegno misterioso, la concede secondo un criterio di predestinazione. Essa è il solo rimedio atto a sottrarre la volontà umana all’inclinazione al male: solo un essere onnipotente come Dio può redimere un ente intimamente colpevole qual è l’uomo.
Con ciò sembra completamente annullato il ruolo dell’uomo alla salvezza; ma per Lutero non è così. Se infatti al fedele è raccomandato di confidare in Dio come fondamento della propria salvezza, questa fede si deve poi tradurre in una testimonianza incessante e totale, in comportamenti anche pratici coerenti in essa.
Certo è che, al di là di quel che di cupo e contraddittorio esiste nel pensiero di Lutero, la parte riguardante la dottrina del “ libero esame “ e la tesi della “ libertà del cristiano “ – il quale almeno spiritualmente può considerarsi “ sciolto da tutte le leggi

“ che non siano quelle divine – diverranno un potente fattore di emancipazione
religiosa, umana e politica, ponendo le basi del liberalismo e del liberismo moderni.


E, parlando di Riforma, non si può non fare un cenno alla figura di Gerolamo Savonarola, che nacque in Ferrara nel 1452 e sul cui pensiero giocò un ruolo fondamentale S. Tommaso d’Aquino. Su di lui ebbe grande peso infatti l’educazione del nonno Michele ( che era un convinto tomista ), che Girolamo perse all’età di 16 anni, quando ormai la sua formazione era ben avviata. Era mastro Michele uomo di esemplare pietà e di rigidi costumi, tanto imbevuto di scolasticismo quanto lontano dall’Umanesimo.
Era ormai Gerolamo al suo XVIII° anno di età, e nel suo caldo animo fermentava il lievito lasciato dal nonno Michele: lo scadimento dei costumi, ch’era stato un acuto stimolo pur nel cuore dell’avo, faceva sanguinare quello del nipote ogni giorno di più nella facile ed estesa corte estense. Condotto una volta a corte, n’ebbe tale disgusto che mai volle più mettervi piede. Ma ciò che più lo angustiava era la tiepidità del clero e la sua corruzione.
Nel 1475 decise di lasciare la casa paterna e si avviò a Bologna, bussando alle porte del convento di S. Domenico.
Il giorno dopo, cioè il 25 aprile, scrisse una lettera al padre per dargli ragione della sua dipartita. Né, leggendola, ci vuole molto a capire che quella non è una lettera qualunque, di un qualunque giovane che scappa di casa; dentro c’è già tutto il futuro riformatore. Parla de “… li cecati populi di Italia “ e de “ … la gran miseria del mondo, de le iniquitati “ e del fatto che preferirebbe perdere la vita piuttosto che non accogliere la chiamata di Dio.
Di maggio Savonarola giunse per la prima volta a Firenze che, in un altro maggio, gli darà, dopo gli osanna, l’obbrobrio e la morte. Ricca e potente pei traffici, splendida negli edifici, squisitamente corrotta come può esserlo la capitale di una civiltà che ha toccato il suo culmine, era guidata da un signore, Lorenzo, che il Savonarola così dipingeva: “ superbo, crudele, vendicativo, ambizioso, corruttore dei costumi, rubatore del pubblico denaro “. Proprio in questa città e sotto tale signoria, veniva a capitare colui che, fin dagli anni della fanciullezza, sentiva pesare insopportabilmente sul mondo la crudeltà, l’avarizia e la lussuria degli uomini. Egli aveva allora 30 anni.

Fino a che si arrivò alla signoria di Piero, che con quei suoi modi era venuto in fastidio ai fiorentini, gli animi dei quali si volgevano tutti al Savonarola, che quelle cose aveva puntualmente pronunziate. In un tal clima la venuta di Carlo VIII° dalla Francia era vista da frate Girolamo come l’arrivo di colui che veniva a “ brandire la spada sui cecati populi d’Italia “.

Contro i Medici si era formato un “ partito popolare “ coordinato proprio dal Savonarola, che Machiavelli definì “ il profeta disarmato “.
L’arrivo dei Francesi e la debolezza di Piero de’ Medici permisero la restaurazione della repubblica.
Per qualche anno Savonarola e il partito “ popolare “ ebbero il potere e la possibilità di realizzare i propri ideali politici. Ma il tipo di governo, decisamente popolare, e soprattutto le scelte economiche ( imposta fondiaria e quella progressiva sui redditi ) fecero nascere contro il partito dei “ Piagnoni “ ( come si chiamava quello del frate domenicano ) l’alleanza fra i fautori de’ Medici ( “ Palleschi “ ) e il gruppo dei ricchi patrizi ( gli “ Arrabbiati “ ), che fino ad allora erano stati avversari dei Medici, sognando una repubblica di Ottimati, ma che a questo punto temevano di più il Savonarola. A queste opposizioni interne si aggiunse l’odio del papa Alessandro VI°. Nel 1498 Palleschi e Arrabbiati riuscirono ad avere la meglio. Savonarola fu arrestato, processato e condannato a morte come eretico.
Il suo corpo, prima della morte, fu lacerato dalle torture per tutta la durata del processo, ma la sua vita fu mirabile nella prigione quanto quella che aveva menato nel chiostro. Il suo carceriere, cattivo e molto suo avversario, ne fu edificato in modo che si convertì e divenne umano come lui.

La morte del frate non fu comunque la fine: per quanto il suo corpo se lo fossero diviso il cielo, il vento e il mare, per quanto la Chiesa dette ordine che non si doveva parlare di fra’ Girolamo né nel bene né nel male, fino a proibire di cantare il salmo “ Ecce quam bonum “, che era quello prediletto dal Savonarola e dai suoi, molti furono i suoi discepoli, molti coloro che ne chiesero la santificazione e molte le sommosse scoppiate di seguito. Roccaforti della memoria savonaroliana divennero S. Romano a Lucca, S. Maria della Quercia a Viterbo, Pistoia, Siena e la stessa Firenze, dove quel fuoco si era acceso.
Ma il trionfale ritorno del Savonarola fu nel fatale anno 1527, dopo il terribile sacco di Roma ad opera dell’esercito imperiale e la nuova cacciata dei Medici. Nell’aprile del 1530 Lorenzo Ridolfi, dottore di legge, propose negli Ottanta che si levasse via dalla Camera del Comune il processo di fra’ Girolamo, come cosa vituperosa “ e n’allegò la ragione, dicendo che tutto quello ch’era stato fatto dal popolo fiorentino contr’al frate era stato fatto contro Dio “.
E il documento cui ci siamo ispirati e che appartiene a Roberto Ridolfi, autore di una “ Vita di Gerolamo Savonarola “ ( prima ediz. 1952, quinta ed ultima 1974 ), termina dicendo che “ un solenne riconoscimento tributato al martire della Chiesa nella maturità dei tempi, dopo i flagelli della Riforma e della Controriforma, sarà una definitiva testimonianza resa alla verità, che il fine è della storia ".

Rita Gherghi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Cocculaio e il Mugnaio.

Nel periodo estivo, verso il sol leone, il ginepro aveva le sue bacche rosse e celestine, pronte per essere raccolte.
Diverse persone partivano di buon’ora per le zone del seggianese o anche di Roccabelgna per coglierle: ogni raccoglitore, munito di un bastone, batteva sui rami e le bacche cadevano dentro un corbelletto che era collocato sotto. Passavano da un ginepro all’altro, interrompendosi solo per mettersi qualche cosa sotto i denti.
Non era raro che tale battitura disturbasse una vipera, che reagiva secondo suo costume, all’improvviso.
Queste bacche erano molto ricercate e pagate bene perché servivano nella medicina, nelle distillerie per fare il Gin e nella gastronomia.
Venivano a ritirarle dei mercanti da Montalcino o da Vivo d’Orcia e, come è loro costume, cercavano sempre di evidenziare difetti nel prodotto per pagarlo di meno.
Un altro mestiere ormai scomparso dalle nostre parti è il Mugnaio.
E sì che abbondavano nelle varie zone!
Costruiti in riva ai torrenti o vicino ad una sorgente, i mulini sfruttavano l’acqua per produrre l’energia necessaria al movimento delle macine.
Da ricordare in Casteldelpiano il mulino della Sansina, il Mulinaccio, il Mulino delle Conce che presto andò ad elettricità, come quello alla Casella del Corsini; ma è ricordato ed è tutt’ora imponente in paese il Mulinone. Si ricordano anche il Mulino del ponte di Montegiovi, quello del ponte della Pieve di Lamula e quello della Lama, sulla strada che porta a Seggiano.
Mentre le macine giravano, il mugnaio faceva scorrere tra le tre dita della mano destra la farina che pioveva nel cassone, per giudicare se il lavoro procedeva bene.
Era sempre infarinato, come infarinato era tutto il locale e, naturalmente, l’aria che respirava gli intossicava i polmoni ed aveva sempre la gola infarinata.