il mio arrivo in questo mondo
Permettete che mi presenti. Mi chiamo Sinforiano e sono un
bel gatto. Tutto grigio perla, con le orecchie e la coda che
danno sul marroncino, il ventre bianco e, chissà perché,
la zampa anteriore destra curiosamente giallastra. Ho il pelame
morbido e folto, ereditato da un mio remoto antenato che era
un gatto dAngora.
Nacqui qualche anno fa, in un cesta di foglie di palma: una cesta
senza fondo che la padrona di casa aveva gettato via considerandola
inservibile.
Questa cesta era andata a finire sotto una siepe di fico dIndia.
La siepe delimitava un ampio giardino in mezzo al quale sorgeva
la grande casa di Sceck Mansur ben Daud. Il giardino e la casa
erano a circa tre chilometri da una bella cittadina della Tripolitania,
chiamata Zavia.
Mia madre si chiamava Chitta che in lingua araba vuoi dire gatta,
e veniva considerata un po ladra. Le malelingue dicevano
che andasse rubacchiando in casa quanto di commestibile poteva
trovare. Il che non è affatto vero. Erano tutte malignità
messe in giro dagli altri animali del giardino, invidiosi del
fatto che a mia madre non si richiedeva di portare some al mercato
come il somarello, né di dare il latte come le mucche,
né di deporre uova come le galline, né di fare
la guardia e abbaiare come i cani.
Erano pure e semplici malignità, che tutti credevano però.
Tantè vero che se mia madre si azzardava ad affacciarsi
alluscio della cucina, tutti facevano a gara a tirarle
sul groppone ciabatte e pezzi di legno, oltre alle ingiurie che
nessuno le risparmiava.
«Timsci! Ya hanba. Barra! Ya chitta askarsusa», cioè:
vattene! Ladra. Fuori! Gatta malandrina.
Invece mia madre, poverina, si nutriva di topi e di lucertole.
Persino di locuste quando non trovava di meglio. La giudicavano
ladra perché un centinaio di volte, e non di più,
spinta dalla fame, si era permessa di sbocconcellare un grammino
di carne o di sorbire un uovo. Oh! Iniquità del prossimo!
Dite voi se non erano tutte calunnie.
Nacqui come dicevo, in una cesta sfondata. Il che non è
il luogo ideale per venire su questa terra. Nemmeno per un gatto.
Ma, evidentemente, mia madre non aveva trovato nulla di meglio.
Io poi non me ne accorsi neppure perché alla nascita avevo
gli occhi chiusi, come i miei due fratelli e mia sorella del
resto. Già, dimenticavo di dire che eravamo in quattro:
tre gatti maschietti e una gatta femminuccia. Eravamo tutti graziosi,
ma io, scusate limmodestia lo ero più degli altri.
Chiunque avrebbe facilmente capito che da adulto sarei stato
quel bel gatto che in effetti sono.
Una cesta di foglie di palma sfondata, non è la culla
ideale, nemmeno per una cucciolata di gatti, così la mia
mamma decise di cambiare abitazione.
Nello stesso giardino, non troppo distante dalla siepe natale,
cera un antico limone, fronzuto e bizzarramente contorto.
Le sue radici si erano sollevate e avevano formato una tana dove
una gallina della casa andava a deporvi le uova. Mia madre, astutamente,
si aprì un varco dalla parta opposta e, presici per la
collottola ad uno ad uno, ci sistemò, in un cantuccio
della tana dove aveva trascinato uno straccio di lana. La sciocca
gallina continuò per lungo tempo a deporre il suo uovo
quotidiano e mia madre continuò per altrettanto tempo
a nutrirsi di uova della giornata.
Mia madre aveva parecchie amicizie tra gli animali che popolavano
il giardino di Sceck Mansur. Soprattutto era amica di Babbawa
la cagna bianca e di Gattusa, unaltra gatta che non aveva
né fissa dimora né fisso padrone. Pochi giorni
dopo la nostra nascita, quando eravamo ancora nella cesta, le
due vennero a visitarci. Noi avevamo già gli occhi aperti
anche se camminavamo più sulla pancia che sulle zampe.
«Oh! Che amore di piccoli, mia diletta Chitta - esclamò
tutta svenevole la grossa Babbawa - Mai visti gattini così
belli».
E per dimostrare il suo entusiasmo tirò fuori la sua ampia
lingua e distribuì leccate a dritta e mancina. A me ne
toccò una proprio sul muso e sulla testa, e siccome il
complimento non mi era piaciuto affatto, sfoderai le unghiette
e mi ribellai.
Mia madre mi diede una zampata e mi rimproverò:
«Cattivo gattino! È così che si risponde
alle gentilezze di zia Babbawa? Chiedile subito scusa».
In qual modo Babbawa mi fosse zia non riuscii a capirlo e aprii
il muso per protestare. Ma la cortese cagna intervenne in mia
difesa:
«Non picchiare il tuo meraviglioso gattino, mia cara!»,
disse a mia madre. E per consolarmi mi diede una seconda leccata
più energica della prima: praticamente dalla testa alla
coda.
«Sono graziosi davvero - ammise Gattusa dopo averci annusati
- Devi però nutrirli bene, perché mi sembrano delicatini».
Babbawa la smentì con mille scuse.
«Delicatini? Che dici, cara Gattusa! Se mai sono obesi.
Guarda che pancione hanno. Piuttosto Chitta dovrebbe rimpinzarli
meno, altrimenti verranno grassi come un agnello a primavera».
«Che cosa è un agnello?» miagolò mia
sorella.
«È il figlio della pecora», spiegò
mia madre.
«E che cosa è la pecora?» chiesi io.
«La pecora è... la pecora è... già
che cosa è la pecora?» domandò tutta imbarazzata
Babbawa guardando le sue amiche.
«La pecora è la pecora - disse mia madre - e tu
- continuò rivolgendosi a me - non fare il ficcanaso.
Ti interesserai di pecore quando sarai grande. Mica devi fare
il pastore, tu...».
Poi le tre amiche si accucciolarono presso la siepe per scambiare
quattro chiacchiere. Gattusa disse che la cavalla Farass era
una bestia sciocca perché viziava il suo puledro. Babbawa
asserì che Himara lasina era cocciuta. Mia madre
che non amava il pettegolezzo, si limitò a dire che la
padrona era una megera e che il padrone era un diavolo vestito
da uomo.
Dopo pochi giorni, come dicevo, cambiammo casa e andammo ad abitare
tra le radici del vecchio limone. |